Il disegno di legge costituzionale approvato dalla Camera dei deputati il 12 aprile 2016 avente ad oggetto “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del Titolo V della Parte II della Costituzione”, che a breve sarà sottoposto a referendum confermativo ai sensi dell’art. 138 cost., stimola alcune riflessioni sulla nuova disciplina del riparto di competenze tra Stato e Regioni.
La riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 (l. cost. n. 3 del 18.10.2001) aveva individuato all’art. 117 un duplice elenco di materie: al comma 2 quelle devolute alla competenza legislativa esclusiva statale ed al comma 3 quelle attribuite, invece, alla competenza legislativa concorrente delle Regioni, da esercitarsi nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti dalla legge dello Stato. Il comma 4 precisava, infine, che “spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”.
Il quadro risultante dalla riforma del 2001 era completato dalle disposizioni sul riparto delle competenze regolamentari (art. 117, comma 6, secondo cui “La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia”) e delle funzioni di amministrazione attiva (art. 118, secondo cui “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”), e dalla previsione dell’intervento sostitutivo dello Stato quando lo richiedono “la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali … nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione” (art. 120, comma 2).
Il nuovo disegno di legge costituzionale modifica decisamente il catalogo e sopprime la competenza concorrente con una redistribuzione delle materie tra competenza esclusiva statale, che risulta ampliata rispetto all’attuale testo dell’art. 117 (si pensi ad esempio all’inserimento tra le competenze esclusive di settori quali le “norme sul procedimento amministrativo e sulla disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche tese ad assicurare l’uniformità sul territorio nazionale”, la “tutela e sicurezza del lavoro” le “politiche attive del lavoro”, l’“ordinamento sportivo”, l’“ordinamento delle professioni e delle comunicazioni”, ecc.), e competenza regionale, mantenendo la clausola di chiusura che attribuisce alla potestà regionale ogni materia “non espressamente riservata alla competenza esclusiva dello Stato”.
Il dossier del Servizio Studi della Camera dei Deputati chiarisce che nell’ambito della competenza esclusiva statale sono, in realtà, enucleati settori e materie che potrebbero definirsi di competenza esclusiva “limitata”, in quanto l’intervento del legislatore statale è circoscritto ad ambiti determinati, quali “disposizioni generali e comuni” o “disposizioni di principio”. È questo ad esempio il caso delle materie “tutela della salute”, “politiche sociali” e “sicurezza alimentare”, “istruzione e formazione professionale”, “attività culturali” e “turismo”, “governo del territorio”, ecc., che non compaiono nell’elenco delle materie di competenza regionale, ma rispetto alle quali lo Stato si vede attribuire una competenza esclusiva limitata alle “disposizioni generali e comuni”, che va ad aggiungersi alla competenza statale per così dire “piena”.
Il rafforzamento delle competenze statali passa anche attraverso la c.d. “clausola di supremazia” o “clausola di unità nazionale”, introdotta al comma 4 dell’art. 117, in base alla quale la legge statale – su proposta del Governo – può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale. L’obiettivo perseguito è chiaramente quello di un sensibile rafforzamento del ruolo dello Stato nei confronti delle Regioni. Il profilo rilevante, invero, è che in tal modo viene reintrodotto il concetto di “interesse nazionale” venuto meno a seguito della riforma costituzionale del 2001, resuscitando – come evidenziato in dottrina (G. Serges, La potestà legislativa delle Regioni nel progetto di riforma della Costituzione, in Rivista AIC n. 3/2015) – “un limite che già nella prima fase del regionalismo era divenuto particolarmente penetrante e mediante il quale … la giurisprudenza costituzionale aveva giustificato, in più occasioni, la flessione a favore dello Stato della stessa potestà legislativa concorrente”.
Se si legge il nuovo art. 117 Cost. si possono trovare elementi di continuità e di discontinuità col diritto regionale vigente. Nel solco della tradizione è il mantenimento della scelta di individuare i poteri a partire da “materie”; le più evidenti discontinuità sono l’accettazione di una concezione dinamica delle attribuzioni e la possibilità per il legislatore regionale di farsi artefice responsabile di riempire di contenuto le proprie competenze, poiché di eventuali sconfinamenti o esigenze unitarie la riforma si fa carico mediante il Senato ex ante e la clausola di unità nazionale ex post.
Molti commentatori hanno sottolineato come non si sia di fronte in realtà ad una rivoluzione del quadro dei poteri, perché il tratto di penna utilizzato per stabilire le materie statali e quelle regionali si muove in larga misura nella direzione tracciata negli anni successivi alla l. cost. 3/2001 dalla Corte costituzionale: molte delle nuove attribuzioni statali sono infatti la traduzione positiva di pronunce specifiche e la riduzione quantitativa delle attribuzioni regionali è anch’essa coerente con i numerosi e consolidati precedenti della Corte costituzionale (L. VIOLINI, Note sulla riforma costituzionale, in Le Regioni, 1, 2015, 306-307, ritiene, in termini positivi rispetto alle previsioni della riforma, che il passaggio alla competenza esclusiva di talune materie, per effetto della riforma costituzionale, non sia che il recepimento della giurisprudenza costituzionale degli ultimi anni. Parla di tentativo di “costituzionalizzare orientamenti già consolidati e peraltro ben noti della giurisprudenza costituzionale maturati nello sforzo di attribuire coerenza e rimediare ai conclamati difetti del modello regionale introdotto dalla riforma del 2001” A. ANZON DEMMIG, Il progetto di riforma costituzionale del governo Renzi: una sorpresa positiva, in Osservatorio costituzionale, aprile 2014, www.osservatorioaic.it.).
Nello stesso senso può leggersi il mantenimento della clausola di residualità (nell’ultima parte del comma 3 del nuovo art. 117): come chiarito dalla Consulta con la fondamentale sentenza n. 370/2003, questa previsione in realtà non riconosce “materie residuali” (che erano e restano innominate, e quindi a priori inesistenti), ma semplicemente la possibilità per le Regioni di esercitare una potestà legislativa laddove non siano rinvenibili esigenze di carattere unitario, che meritano di essere realizzate dal Parlamento nazionale o riassorbite mediante la “clausola di unità nazionale”.
In un’ottica di discontinuità rispetto al passato e rispetto alla tradizione costituzionale repubblicana si pone invece l’abolizione delle competenze concorrenti, che ha suscitato molte critiche. Tra queste anche la critica di chi ha sottolineato che, a ben vedere, si tratterebbe di un’abrogazione solo formale, in quanto quel che era sotteso all’idea della concorrenza finisce per riemergere quando il nuovo d.d.l. cost. prefigura l’esercizio di poteri normativi spettanti a soggetti diversi su medesimi ambiti, ossia tutte le volte che le competenze statali sono configurate come limitate alle sole disposizioni generali e comuni (in materia di tutela della salute, politiche sociali, sicurezza alimentare, istruzione tradizionale e professionale, formazione professionale, cultura e turismo, governo del territorio) o alle disposizioni di principio (forme associative dei comuni), a norme tese ad assicurare l’uniformità sul territorio nazionale (procedimento amministrativo e lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni), ai profili ordinamentali generali (area vasta, art. 40.4 d.d.l. cost.), o ai principi fondamentali (sistema elettorale regionale e promozione dell’equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza). In queste materie si ammette, infatti, l’intervento della legge regionale proprio nei confini tracciati dal legislatore statale. Non è quindi del tutto ingiustificata la sensazione che la cancellazione della legislazione regionale concorrente – ritenuta nell’intenzione del legislatore della riforma la causa principale dei conflitti tra Stato e Regioni e per questo meritevole di essere abolita – sia coerente solo in parte con quell’intenzione, di fronte ad un uso così largo di criteri che riprendono la distinzione “principi-dettaglio”( questo senso A. Morrone, Lo Stato regionale e l’attuazione dopo la riforma costituzionale, in Rivista AIC, n. 2/2016).
Importante richiamare anche la norma transitoria che prevede che “Le leggi delle Regioni adottate ai sensi dell’articolo 117, terzo e quarto comma, della Costituzione, nel testo vigente fino alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale, continuano ad applicarsi fino alla data di entrata in vigore delle leggi adottate ai sensi dell’articolo 117, secondo e terzo comma, della Costituzione, come modificato dall’articolo 31 della presente legge costituzionale”. Ne discende, quindi, che tutte le leggi regionali su materie già oggetto di legislazione concorrente ed oggi attratte nella competenza statale andranno a decadere nel momento in cui verranno emanate nuove norme in attuazione del nuovo riparto di competenze.
Un aspetto peculiare della riforma costituzionale in parola riguarda la sua applicazione temporale: se si prescinde, infatti, dalle poche disposizioni di immediata applicazione – l’abolizione del CNEL, i limiti agli emolumenti dei componenti degli organi regionali, la determinazione con legge della Repubblica dei principi fondamentali per promuovere l’equilibrio tra donne e uomini nella relativa rappresentanza, la previsione che nella legislatura in corso non si proceda alla convocazione dei comizi elettorali per il rinnovo del Senato della Repubblica allo scioglimento di entrambe le Camere, la competenza della Corte costituzionale in tema di giudizio sulla legittimità costituzionale delle leggi che disciplinano l’elezione dei membri della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, la permanenza nella stessa carica dei senatori a vita in carica alla data di entrata in vigore della legge di riforma costituzionale, ed alcune disposizioni finali contenute nella stessa riforma costituzionale –, le disposizioni della legge costituzionale de qua, la cui entrata in vigore è fissata per “il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale successiva alla promulgazione”, “si applicano a decorrere dalla legislatura successiva allo scioglimento di entrambe le Camere” (art. 41 d.d.l. Cost.).
Infine, un ultimo aspetto di rilievo riguarda l’applicazione delle nuove norme alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome: il comma 13 dell’art. 39 del d.d.l. prevede, infatti, che le disposizioni modificative “di cui al Capo IV della presente legge costituzionale” (e cioè quasi tutte le disposizioni modificatrici del vigente Titolo V della Cost. contenute nel d.d.l.) “non si applicano alle Regioni a Statuto speciale ed alle Province autonome di Trento e di Bolzano, fino alla revisione dei rispettivi statuti sulla base di intese con le medesime Regioni e Province autonome”. La riforma del 2016 incrementa quindi quel divario tra Regioni a statuto ordinario e Regioni a statuto speciale che la riforma del 2001 aveva in qualche modo ridotto, aumentando la quantità dei poteri delle Regioni ordinarie (vd., in proposito, B. Caravita Di Toritto, cit., in Rivista AIC n. 2/2016). Ciò in quanto proprio alcuni degli enti regionali che, a ragione od a torto, hanno più suscitato polemiche nell’opinione pubblica per i loro presunti privilegi o per le loro prassi di funzionamento rimarrebbero esclusi da quasi ogni innovazione, anche parziale, fino al momento in cui la Regione interessata concordi sull’innovazione proposta al proprio statuto.
Avv. Matteo Pezza